17/09/17

Jean-Christophe Rufin, LE TOUR DU MONDE DU ROI ZIBELINE



         ["It had a magic-like character, a door to the future or something"... (Paris 2017). Foto Rb]


Jean-Christophe Rufin, Le tour du  monde du roi Zibeline. Paris, Gallimard, 2017

Rufin rilancia, in forma romanzesca, le memorie di viaggio avventurose, in parte forse non del tutto corrispondenti al vero, ma in generale piuttosto ben note nell’epoca immediatamente successiva della loro pubblicazione, di Maurizio Augusto Conte di Benjowski (così nella grafia francese, o, secondo la grafia ungherese, Benyovszky), vissuto tra il 1746 e il 1786. Dopo aver partecipato alla guerra di Polonia, venne arrestato e deportato in Siberia, da dove fuggì per approdare in varie zone del Pacifico, recandosi negli Stati Uniti e chiedendo l’aiuto, negatogli, di George Washington per instaurare una colonia in Madagascar, il che ritentò col sostegno austriaco, senza successo in quanto perì in un’imboscata tesagli dai francesi.

Rufin, che oltre a essere scrittore, è un militante di movimenti dei diritti umani e uno dei fondatori di “Medici senza Frontiere”, trova nel Settecento elementi di confronto rispetto alle proprie convinzioni  anticoloniali, e paragona le impostazioni di Diderot, Montesquieu e Voltaire sul rapporto che l’Occidente dovrebbe tenere con popoli di altre culture, senza pedanteria, ma riferendo le idee dell’Illuminismo nel vivo della discussione tra contemporanei del Settecento; idee che spingono il suo protagonista a liberare il Madagascar nel rispetto dei valori originari di chi lo popola e lo elegge  re dell’isola. Il Settecento dell’autore viene condensato così:

“Le XVIIIe siècle est beaucoup plus libéral et avancé que ne l’a été le XIXe, positiviste, siècle de la colonisation et de la soumission. Le XIXe a introduit la notion de hiérarchie entre les cultures et les civilisations: on conquiert pour faire avancer les autres ou pour les écraser, peu importe. Le XVIIIe, lui, est beaucoup plus divers. Il y a les marchands et les missionnaires, mais aussi ceux qui, comme Benjowski, sont capables, et c’est tout le sens de ce livre, de proposer un autre destin, celui de la Constitution américaine. Et de faire de Madagascar un pays souverain avec des hommes politiques qui s’inspirent de Montesquieu” [1].

La storia, che ha un epilogo in terza persona, è in massima parte significativamente narrata da due voci, una maschile e una femminile, quella di Benjowski e quella della sua compagna Aphanasie, che si alternano nel racconto delle vicissitudini a Benjamin Franklin. Rispetto alla verità storica, Rufin precisa:

“J’ai juste opéré quelques transpositions romanesques: j’ai réuni la maîtresse russe d’Auguste et sa femme en un seul et même personnage, Aphanasie, et, lors de son passage aux Etats-Unis, je ne l’ai pas fait rencontrer George Washington, mais Benjamin Franklin” [2].

In effetti, il protagonismo prefemminista di Aphanasie e la fedeltà amorosa di Benjowski sono da attribuirsi alla creatività dell’autore del romanzo, che si muove entro una dimensione geografica globalizzata dall’Europa orientale, alla Siberia, all’Alaska, al Giappone, a Macao, Madagascar, Francia e Stati Uniti, con una leggerezza del racconto e una dimensione avventurosa che mai cade nella banalità commercializzante delle storie di traversie e imprese contemporanee.


NOTE

[1] “Jean-Christophe Rufin: ‘Le monde est en train de redevenir opaque’”, intervista con Jean-Christophe Rufin, a cura di Marianne Payot, L’Express, 9-4-2017.

[2] Ibidem.


[Roberto Bertoni]