13/12/16

Cristina La Bella, PINOCCHIO CON GLI STIVALI NON CI PENSA PROPRIO A DIVENTARE UN BAMBINO “PERBENE”



Se avessimo anche una fantastica, come una logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare.  (Novalis)


Pubblicato per la prima volta nel 1977 per la Cooperativa Scrittori e in seguito nel 2004 per Monte Università Parma, Pinocchio con gli stivali di Luigi Malerba (1927-2008) - straordinario scrittore italiano che non ha bisogno di presentazioni - è un libro scritto per i piccoli, ma destinato ai grandi, vale a dire una splendida storia che fa divertire i primi e riflettere i secondi. Come Le galline pensierose, sempre dello stesso autore, dato alle stampe nel 1980 e ripubblicato nel 2014 da Quodlibet Compagnia Extra, Pinocchio con gli stivali, di cui esiste un sorprendente radiodramma con Paolo Poli e Marco Messeri mandato in onda sul finire degli anni Settanta nel programma Radiodrammi in miniatura, è a tutti gli effetti un libro “anfibio”, nel senso che andrebbe letto dai ragazzi insieme ai genitori [1]. Che Malerba si sia dedicato alla letteratura per l’infanzia non deve sorprendere nessuno, ha pubblicato decine e decine di racconti: da Mozziconi (1975) alle Storiette tascabili (1984), senza considerare le vicende di Millemosche (1969), scritte in coppia con il grande amico e sceneggiatore Tonino Guerra per l’editore Valentino Bompiani. È lo stesso autore, in un’intervista apparsa su “Tuttolibri” il 17 novembre 1984, a spiegare il suo interesse per il mondo dei bambini:

Prima di tutto perché mi diverto, come sicuramente si divertivano quelli che raccontavano favole nelle cucine e nelle stalle. […] Poi perché mi piace mettere in imbarazzo i miei piccoli lettori, sconcertarli con paradossi, fargli capire che il mondo è strano e pieno di inganni e addestrarli fin da bambini a diffidare dei conformismi istituzionali e dei modelli confezionati, a vedere il lato ridicolo delle cose [2].

In Pinocchio con gli stivali, infatti, il suo “bersaglio” è il romanzo di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato in versione [3] integrale a Firenze nel 1881, che ha per protagonista un burattino di legno, che dopo mille avventure e peripezie, riesce a diventare un ragazzino vero. Lo sperimentalismo malerbiano, leggibile talvolta solo in filigrana, che è comun denominatore di tutte le sue opere, investe anche le fiabe tradizionali, che a detta sua, mettevano in scena il principe e il castello, realtà molto lontane da noi, il lupo feroce che oggi è animale protetto dal WWF, monete d’oro che ora sono di carta, carrozze a cavalli che sono diventate automobili [4]. Convinto che ogni epoca abbia le proprie favole, come ha i propri vestiti, le proprie case e la propria organizzazione sociale, lo scrittore di Berceto riprende il discorso, dove Collodi lo aveva interrotto:

e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!” [5]

Malerba si ricollega dunque al capitolo trentacinque:

Il mare era tranquillo, la luna splendeva, il Pescecane dormiva e Pinocchio nuotava. E nuotando pensava che non aveva nessuna voglia di entrare nel capitolo seguente, cioè l'ultimo, perchè lì sarebbe diventato un ragazzino perbene [6]. 

Una sera il burattino si addormenta e sogna la fata turchina (il tema del “sogno” è presente in tutta la narrativa di Luigi Malerba). Dopo aver ascoltato la lunga tiritera di quest’ultima per mettere giudizio, Pinocchio decide di piantare in asso lei e il sogno stesso. Io mi trovo bene come burattino e non voglio diventare un ragazzo nè perbene nè permale [7] pensava tra sé, tant’è che il Pinocchio malerbiano non ci tiene proprio a diventare un bambino vero. Come spiega il narratore: “per quanto scapestrato Pinocchio non se la sentiva di fare una simile porcata”, dove si noti bene che la parola “porcata” sta per “diventare un bambino educato e rispettoso”. Con straordinaria ironia e abilità affabulatoria lo scrittore abbozza la figura di un personaggio già noto al pubblico, Pinocchio appunto, che però ci appare ora sotto una luce diversa – che cos’è la fantasia, infatti, se non tutto ciò che prima non c’era e che si pensava fosse irrealizzabile [8]? – e originale nella sua caratterizzazione: il burattino ha un epiteto sbilenco (le gambe che gli fanno tric trac), lavorare non gli piace perché è faticoso, al contrario ama recitare, cantare e ballare e il suo scopo è trovare una nuova favola in cui stare. Succede in questo libro per ragazzi quel che allo scrittore di Berceto capita spesso: egli riempie gli spazi bianchi della scrittura. Proprio per questo e per altre ragioni il critico Walter Pedullà ha spiegato che la narrativa di Malerba crea il vuoto attorno a sé, si gonfia e riduce, aumenta fino a scoppiare, proprio come succede a quelle bolle di sapone, protagoniste di uno dei suoi racconti più famosi, contenuti nella raccolta Le rose imperali (1974). Riempie gli spazi bianchi della narrativa quando nel romanzo Itaca per sempre (1997) entra nella testa di Penelope, la fedele sposa di Ulisse, ritenendo impensabile che lei non sia stata capace di riconoscere subito il marito, o quando in un racconto di Dopo il Pescecane (1979), intitolato Cento scudi d’oro, immagina l’intera notte di Lucia trascorsa nel castellaccio dell’Innominato, mostrandoci una ragazza tutt’altro che ingenua e pudica, o infine quando in un libro, pubblicato postumo, Il diario delle delusioni, si chiede ad esempio che fine abbiano fatto i baracchesi del film Miracolo a Milano dopo esser saliti a bordo di una scopa diretti verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno. Naturalmente la Lucia di Malerba non parla come quella di Manzoni, parimenti questo novello Pinocchio, che con quello di Collodi condivide ben poco. Il divertimento, probabilmente, sta tutto qui. Malerba lo tratta come un personaggio letterario, un burattino vivace e scapestrato, che stanco del ruolo, a cui era stato relegato, se ne va a spasso nelle favole altrui. Finisce in tre fiabe diverse, tutte dei fratelli Grimm: Cappuccetto Rosso, Cenerentola e Il gatto con gli stivali. Nella prima sequenza, Pinocchio dice di conoscere a memoria la fiaba – tant’è famosa – e vorrebbe occupare dapprima il posto del lupo poi quello di Cappuccetto Rosso stesso. 

Come gli spiega il lupo, però, nelle favole ogni personaggio ha una sua funzione e di conseguenza non è possibile cambiare né i personaggi né le loro azioni. Persino quando Pinocchio gli promette di non alterare la favola, il lupo non cambia partito, anzi si prende gioco dei suoi giuramenti, vista la fama del burattino. In seguito Pinocchio riceve una seconda lezione da Cappuccetto Rosso, quando nel tentativo di farle cambiare strada per far dispetto al lupo, la bambina gli chiarisce di non poter fare altrimenti perché “nella favola sta scritto così”.

Cappuccetto Rosso spiegò a Pinocchio che poteva arrivare con qualche minuto di ritardo, questo sì, ma che per forza doveva incontrare il Lupo e per forza doveva andare dalla Nonna perchè così stava scritto nella favola [9].

L’idea del narratore come burattinaio e dei personaggi come burattini, che ricorda vagamente Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, trova nel Pinocchio con gli stivali la sua massima esemplificazione. Ecco che possiamo guardare alla letteratura come ad un gigantesco e spassoso giocattolo (e quest’ultimo assume tutt’altro che una valenza negativa!). Come scrive Walter Benjamin quando inventano storie, i bambini sono registi che non si lasciano tarpare le ali dal senso e Malerba appartiene proprio a quella schiera di scrittori che deve molto al prerazionale, la sua fantasia è sfrenata, legata all’infanzia e al sogno; egli non si abbassa al livello del bambino, fa in modo invece che sia il lettore a dubitare e a mettere in crisi le proprie certezze. Una sua teoria si trova nel romanzo Il fuoco greco:

“I fatti che succedono sono soltanto un pretesto per la scrittura perché non sono veri” aveva risposto l’eunuco. “La verità sta nella mia penna e nelle parole che io scrivo su questi fogli di pergamena. […] Su questi fogli voi pensate quello che vi faccio pensare io e fate quello che io vi faccio fare” [10].

La scrittura come mezzo per poter entrare in competizione con Dio, il tempo e la fortuna, gli eterni punti fermi dell’uomo. Proprio perché lo scrittore è padrone della sua storia, così come dei suoi personaggi e delle loro parole:

So soltanto che finirà quando io deciderò di finirla e che si concluderà nel modo che vorrò io. In questa storia sono io che comando. Io sono un umile eunuco, ma quando scrivo ho più potere dell’imperatore vostro fratello. Io posso far morire una persona con una sola parola [11].

Ritorniamo in punta di penna al Pinocchio con gli stivali: “Tu sei venuto qua a fare della confusione e niente altro. La nostra favola va avanti benissimo da secoli così com'è!” dice il lupo a Pinocchio, che decide così di proseguire il suo viaggio - non prima naturalmente di essere giunto alla conclusione che il lupo è cattivo e presuntuoso e Cappuccetto Rosso una bambina troppo piccola e noiosa – e si ritrova così nella fiaba di Cenerentola. Sceglie di parlare col principe, confidando nella gentilezza dei nobili. Questi non può accontentare la richiesta di Pinocchio perché:

- Che cosa penserebbero dell'erede al trono i sudditi di suo padre se cedesse il posto ad un burattino?
- Cenerentola sarebbe felice di sposare Pinocchio?

Si comprende come la storia prenda la piega di una moderna pièce teatrale. Non contento, Pinocchio gli spiega che si tratta soltanto di una favola, che suo padre non è un re vero, né i suoi sudditi esistono fuori dalla pagina. Le parole di Pinocchio trovano giustificazione nel fatto che egli è consapevole di essere un “personaggio”, vale a dire di appartenere al regno della finzione, dove tutto è possibile, proprio perché come scrisse Gianni Rodari la fiaba è il luogo di tutte le ipotesi.

Scompaginare la tradizione è il mestiere di Malerba, che al pari del già citato Gianni Rodari, Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Cesare Zavattini, rispolvera la favola d’autore, adattandola alla realtà contingente, rivitalizzando gli antichi loci comuni, reinventando, dove necessario, il linguaggio stesso. Anche il principe propone a Pinocchio una parte minore, quella del vento, ma questi come era da aspettarsi rifiuta. Decide di ripartire, la nuova destinazione è Il gatto con gli stivali, una delle storie più amate dai bambini. Pinocchio giunge al mulino del figlio che aveva ereditato solo un gatto, si intrufola nel discorso e tenta di dissuaderlo, ma il giovane gli spiega ancora una volta quel che il burattino non ha ancora capito: tutto è già deciso, egli sa già come andrà a finire ed è contento così. Non pago della risposta, Pinocchio insiste, promettendogli di renderlo dieci volte più ricco, qualora questi accettasse di mettere nel sacco il gatto al posto del coniglio.

Dentro al sacco il Gatto sbuffava, starnutiva, miagolava. Pinocchio si fece dare dal figlio del mugnaio un paio di stivali, se li infilò ai piedi, si mise il sacco in spalla e si avviò verso la reggia del Re con le sue gambe di legno che facevano tric trac [12].

Ogni cosa va come deve andare, fino a quando il gatto non comincia a graffiare tutto e tutti. Con il sottile humor che lo contraddistingue Malerba scrive: “Ci vollero degli anni per rimettere in ordine la favola del Gatto con gli stivali e ogni tanto ancora oggi vi succedono delle confusioni”. Così Pinocchio viene ricondotto di peso al capitolo XXXVI del libro da cui era fuggito. La storia ha, infatti, una struttura circolare. Non la si può definire come un cammino di formazione, ascriverla al Bildungsroman, perché il protagonista non ha mutato la propria condizione né cambiato parere. Leggiamo, infatti, nelle battute conclusive: “Se tutti rispettassero la tradizione il mondo non farebbe mai un passo avanti!”. A significare che la rottura dell’ordine è per Malerba l’opportunità per costruire qualcosa di nuovo, una vera necessità. Perché si può inventare un nuovo gioco, anche partendo da regole e funzioni stabilite. Concludo con la stessa domanda che lo scrittore pone alla fine della favola: “Quante cose brutte stanno dietro questa parola perbene?”. Pare dare ragione Malerba al povero Pinocchio che si contentava di essere un semplice burattino dunque?







[1] LUIGI MALERBA, a cura di GIOVANNA BONARDI, Parole al vento, Lecce, Manni, 2008 p. 136.
[2] LUIGI MALERBA, Parole al vento, cit. p. 132. 
[3] Spinto da Guido Biagi (1855-1925) Carlo Collodi, che aveva diversi problemi economici a causa di alcuni debiti di gioco, invia le prime due puntate de Le avventure di Pinocchio al Giornale per i bambini (7 luglio 1881) diretto da Ferdinando Martini, il quale, visto l’ampio consenso di pubblico lo spinge a scrivere altre otto puntate. La conclusione, pubblicata ad ottobre dello stesso anno, che Collodi ha pensato, ossia Pinocchio morto impiccato da due imbroglioni, non soddisfa i lettori, che con le loro lettere di protesta costringono l’autore a “resuscitare” il protagonista. Nascerà così il libro che tutti conosciamo, il cui successo si deve soprattutto al critico Benedetto Croce, che ne scrisse nel 1903.
[4] Ibibem.
[5] CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 2014.
[6] LUIGI MALERBA, Pinocchio con gli stivali, Parma, Monte Università, 2004.
[7] Ibidem.
[8] BRUNO MUNARI, Fantasia, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[9] LUIGI MALERBA, Pinocchio con gli stivali, cit.
[10] LUIGI MALERBA, Il fuoco greco, Milano, Mondadori, 1990.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.