23/01/15

Alberto Moravia, CINA 1937-1938





 [The shop window (Belleville 2014). Foto Rb]


Alberto Moravia, Cina 1937-1938. Sottotitolo: I primi reportage dalla Cina. Parte II. Milano, La rivista dei libri, 1993


Ci siamo imbattuti in questo libricino fuori commercio su uno scaffale di una biblioteca privata. Moravia si recò in Cina più volte: negli anni Trenta, appunto; poi nel 1967 e nel 1986, ogni volta scrivendo reportage. È di Donatello Santarone un capitolo intitolato “La mediazione letteraria in prospettiva culturale: la rappresentazione della Cina in Alberto Moravia, Franco Fortini e Alberto Arbasino” [1], in cui viene emesso un giudizio nel complesso positivo sugli articoli del 1937-1938. Santarone ricorda che Moravia scelse il viaggio in Cina come una delle tattiche di respingimento del fascismo che lo soffocava; rileva la consapevolezza moraviana della gravità dell’invasione giapponese; e la “commossa e insieme paternalistica partecipazione” con cui lo scrittore si accostò al degrado e alla povertà cinesi di quei tempi [2].

Ciò è vero. Tuttavia, a una lettura personale, ci hanno colpito anche altri elementi, che si potrebbero delineare come occidentalisti.

Se, da un lato, Moravia è ben informato sulla politica internazionale e conosce vari aspetti della politica cinese, si produce non di rado in giudizi che paiono affrettati, considerando anche il fatto che non parlava cinese e si serviva di interpreti.

Per esempio, sul teatro dell’Opera, sebbene dagli scanni del pubblico riferisca con la precisione descrittiva che è propria del suo stile, trova “curiosamente patetico” il “falsetto” di una delle parti, che si presuppone sia un effetto della sonorità della lingua cinese e dello stile di canto su un orecchio occidentale; e ritiene la musica “il più sgradevole, inopportuno e stonato fracasso che avessi mai udito in vita mia” (p. 73).

Si dilunga sulle missioni e assegna loro un ruolo positivo, in opposizione al colonialismo di stampo commerciale e politico, ma ritiene esagerate le posizioni antistraniere di molti cinesi.

È sensibile al contrasto spaziale e sociologico tra “il disordine umano” della capitale e le misure grandi e orizzontali (che contrappone ai grattacieli di New York in positivo) dei palazzi imperiali, nonché l’ambiente “ordinato e solitario” del Tempio del Cielo (p. 101). Poi, però, giudica il Taoismo una “religione arcaica e magica, terrestre e misteriosa” (p. 103); e ribadiamo una volta di più, in relazione al viaggio in Oriente in generale, chiunque lo compia da Ovest, che ciò che è “misterioso” per il visitatore occidentale, non è detto che lo sia per la quotidianità delle persone che in Asia vivono gli elementi culturali ovviamente con naturalezza, come parte di sé e della propria comunità, senza “arcano” insomma.

Vero che Moravia è partecipe, come si citava poco sopra. In particolare, la visita a una filanda di seta di Shanghai suscita, tra i particolari dettagliati, la resa con frasi secche e obiettive, una similitudine con una “bolgia” (p. 113) e la denuncia del lavoro minorile, oltre alla considerazione che la Cina avrebbe potuto perseguire un’industrializzazione più rapida se avesse avuto una classe dirigente più efficace.

Moravia si appunta invece, per noi piuttosto stranamente, su una presunta mancanza di patriottismo dei cinesi (ma non è proprio di quegli anni l’inizio della lotta nazionale antigiapponese? Il movimento che liberò alla fine la Cina? Insomma, appunto, il sentimento nazionale manifestato in modo lampante?).

Se vengono colti il peso fondamentale della famiglia nella vita cinese, la subalternità della donna, l’importanza del vincolo coniugale, al contempo viene giudicato il popolo cinese come privo di passione, il che lascia piuttosto perplessi.

Nelle pagine conclusive, Moravia definisce i cinesi “il popolo più lieto del mondo. Sempre ridono per nulla” (p. 123). Il contesto è rispettoso e benevolente verso i cinesi, conscio della fame e dei lutti, nondimeno quell’osservazione sulla lietezza nasce forse solo da una distanza antropologica dell’atteggiamento con cui si esprimono i sentimenti in una cultura diversa da quella dello spettatore.


[Roberto Bertoni]


[1] In Incontri: Spazi e luoghi della mediazione culturale (2004), a cura di M. Fiorucci, Roma, Armando, 2007, pp. 29-57.
[2] Ibidem, p. 36.