03/10/14

Giuseppe Tucci, TIBET


Volume appartenente all’Enciclopedia archeologica, a cura di J. Marcadé. Ginevra, Nagel, 1975


Si percorre la storia archeologica del Tibet, di cui vengono messi in rilievo in particolare alcuni elementi.

Negli oggetti più antichi, quali i thokdé, che significa “pietra caduta dal cielo” e, al tempo dei ritrovamenti, ritenuti dai tibetani come fausti, viene individuato il rapporto con “l’arte delle steppe dell’Asia centrale” (p. 15).

Tra gli oggetti, alcuni hanno un valore funzionale, ma esso spesso si combina con funzioni sacrali, o inclina verso di esse esclusivamente, per esempio l’oggetto in cui sono scolpiti tredici cerchi, dato che il 13 era sacro nella religione Bon.

Tombe di re, fortezze e templi rappresentano aspetti dell’archeologia architettonica tibetana.

Un elemento architettonico particolarmente rappresentativo è il chöten, ovvero lo stupa tibetano, di cui vengono individuati otto tipi e sono da ritenersi “al pari dei templi: ciò ci conduce a parlare di quante specie possono essere i ten, ‘ricettacoli’ o ‘sostegni’; il ten dello spirito, thukten (diciamo subito che la parola è approssimativa e ben lontano dal tradurre in tutte le sue implicazioni il termine tibetano citta, essenzialità mentale, luce-vuoto, propria del Buddha); ricettacolo, sostegno del corpo (sku rten), cioè ogni rappresentazione figurata del Buddha o dei Bodhisattva o di grandi lama; ed infine sungten, sostegno della parola, tutto ciò che è scritto, la parola del Buddha, i libri” (p. 91).

Nel campo dell’arte figurativa, la ricognizione archeologica rivela le origini in influssi dei paesi limitrofi (Kashmir, Nepal, Cina, Asia centrale). “Ciò avveniva in due diversi modi: o mediante la presenza di artisti dei suddetti paesi nel Tibet, causata dalle situazioni storiche, che in quelli si verificavano ai danni del Buddhismo, o come effetto dei più intensi pellegrinaggi di tibetani nei luoghi sacri dell’India” (p. 113).

Questi influssi, che vanno dalle modalità iconiche, da rispettarsi come venivano tramandate e fissata dalla liturgia anche nei colori, ai materiali adoperati, continuano fino al XIII/XIV secolo, periodo in cui il preesistente si sintetizza in una koiné tibetana dei diversi stili; e da quel momento in poi si determina un’arte autoctona. Una maggiore libertà espressiva si dà quando agli “schemi ieratici e soterici si accompagnò la biografia: il racconto delle vicende del Buddha o dei Bodhisattva, la rappresentazione dei paradisi, la narrazione delle Legenda aurea dei santi che erano spesso gli abati dei monasteri più importanti. Allora penetra nella pittura un soffio di vita e subentra un lieve contrasto fra il testo-pittura e la pittura sciolta da quei legami, che può permettere all’artista di dare libero sfogo alla propria fantasia” (p. 190).


[Roberto Bertoni]