05/10/14

Anna Maria Ortese, L’IGUANA

["That sweet being, treated like a toy" (Blessington 2014). Foto Rb]


Anna Maria Ortese, L'iguana. Prima edizione, 1965. Milano, Adelphi, 1986


Il conte Milanese Aleardo, architetto, in cerca di proprietà da comprare per innestarvi speculazione edilizia per conto della sua famiglia, ma piuttosto ingenuo da parte sua e non caratterizzato da brama di denaro, approda con il panfilo in un’isola non segnata sulle carte, Ocaña, a occidente della costa portoghese. Ivi, proprietaria dell’isola, risiede una famiglia di marchesi in dissesto finanziario, con una “servetta” che è un’iguana ma parla e si muove come un essere umano. Conosciuto Ilario, di cui apprezza l’opera poetica, viene a conoscenza poco per volta dei maltrattamenti cui è sottoposta l’Iguana, contrariamente alle attenzioni di cui era al centro quando, tra i nobili decaduti di Ocaña, chiamava “babbo” Ilario. Costui, per sposarsi, la respinge. L’Iguana pare uccidersi in un pozzo, ma la ritroviamo alla fine della storia ad attendere Ilario sulla tomba, sperando che la porti via con sé. Ilario infatti, forse impazzito, muore dopo un processo intentatogli da Dio, vittima delle proprie fantasie e di una crisi relativa alla sua professione.

La storia, allegoricamente, suggerisce riferimenti tanto alla rappresentazione del Male, più volte citato, nondimeno l’Iguana che, in parte, allegorizza questa astrazione, è al contempo degna di pietà e raffigura gli “oppressi”: le iguane, infatti, si legge nel romanzo “sono ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti, ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società” (p. 168).

La morte di Dio, raffigurato, dantescamente in parte (si pensi all’“angelica farfalla” del Paradiso), come una farfalla bianca, allegorizza la fine dello stato di natura, come pure la spezzatura della compassione e della convivenza tra bestie ed esseri umani. Questi e altri simboli allegorici sono in parte, dunque, decifrabili, autorizzate le interpretazioni qui proposte più o meno esplicitamente dal testo; ma restano ad altri livelli aperti, non facilmente riducibili a esegesi univoche.

C’è chiaramente, una contrapposizione di valori: ricchezza e povertà, imbarbarimento e civilizzazione, sopraffazione e sopportazione, astuzia e ingenuità. Quasi a designare un repertorio della vita su quell’isola, che già dalla sua non marcatura sulle mappe, appartiene letterariamente al repertorio dell’utopia (o della distopia), come l’isola di Island di Huxley e tante altre.

Il fantastico è connotato da una lato da credibilità descrittiva di tipo realistico, tanto che l’autrice, dietro la voce fuori campo, può decretare che “non vi era nulla di meraviglioso” (p. 30).

Il metalinguaggio s’insinua fin dalle prime pagine in cui l’editore Adelchi (già qui Manzoni) assegna ad Aleardo il compito di cercargli in giro per il mondo, manoscritti con argomenti “suggeriti dalla moda”, quali “miseria, oppressione, qualche amore piccante”, appunto i motivi del romanzo stesso di Ortese.

Tra gli autori impliciti, Kafka, non solo ovviamente La metamorfosi, ma anche Il processo (cfr. le pp. 150-162). E Savinio, per il nome Perdita (p. 172) come nella Nostra anima, quindi la ricerca nel pozzo di questo episodio, con la fonte intertestuale saviniana, se essa è tale, spinge a interpretare un’ulteriore significato dell’iguana come anima; e di qui, ancora savinianamente, come inconscio (del resto l’acqua e il fondo del pozzo di per sé guidano in quella direzione).


[Roberto Bertoni]