11/09/14

Agnes Heller, TEMPO E SPAZIO





["She was often looking at the time, or perhaps constantly connecting through space by text" (Milano 2014). Foto Rb]


Sottotitolo: Orientamento verso il passato e verso il futuro. In Agnes Heller, L’uomo del Rinascimento (1967), Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 247-89


A dispetto del loro fascino, non sappiamo quanto le grandi generalizzazioni possano avere una validità completa: un minimalismo moderno, prima ancora che tardomoderno, ci porta a dubitare che possa essere vero, in assoluto, quanto scrive Heller:

“Anche la trasformazione, ossia la particolare interpretazione dei concetti di tempo e di spazio, mostra la scarsa differenziazione del pensiero quotidiano e di quello scientifico nell’epoca rinascimentale. Nessuna di queste categorie riceve un’interpretazione tale da oltrepassare i limiti dell’immaginabile. Dell’idea di spazio, ad ogni modo, possiamo dire che è già deantropologizzata, mentre il concetto di tempo, fino alla fine, è sempre riferito all’uomo” (p. 247).

Mah. Viene da domandarsi: non è tutto, proprio tutto, antropologizzato nell’interpretazione umana? E come si possono superare i limiti dell’immaginabile: non è anche l’inimmaginabile un aspetto degli estremi dell’immaginabile? Due elementi tipici della fantascienza, che è dopotutto erede dell’utopia cui qui si riferisce Heller.

Secondo Heller, “la filosofia naturale del Rinascimento non conosce il concetto di tempo” inteso come “categoria”, ovvero “concetto astratto” (p. 250). Tuttavia, continua Heller, “il tempo è uno dei problemi principali della filosofia sociale” (p. 251) ed enuclea il tempo come termine, il tempo come continuità e il tempo come ritmo, dimensioni interconnesse della vita individuale e dell’operato sociale.

Prevale l’istante, cfr. il Borgia di Machiavelli e il suo operato attivistico da homo novus (p. 262).

Il tempo come continuità si troverebbe, secondo Heller, “solo ed esclusivamente in relazione all’evoluzione della scienza e della tecnica” (p. 267).

Il ritmo è accelerato rispetto al Medioevo; ed Heller fornisce esempi shakespeariani da Riccardo II e Enrico IV. Il ritmo regolare sta “al di fuori della società”, nella natura (p. 275).

Sostiene Heller che manca al Rinascimento la dimensione del futuro come prospettiva. Anche nelle utopie. “L’utopismo antico si orienta decisamene verso il passato […]. Dal XVIII secolo in poi, l’utopismo è realmente proiettato verso il futuro […]. L’utopismo rinascimentale vive invece nel presente”: così Bacone come Moro.

Solo l’azione sociale pratica, non la speculazione teorico-filosofica dell’utopia, sarebbe orientata sul futuro:

“Gli uomini del Rinascimento non avevano […] lo scopo di realizzare una società ‘nuova’ e ‘migliore’: non fu una prospettiva di questo genere a determinare le loro azioni, come successe invece per gli illuministi. Quindi essi non potevano disporre di un’ideologia orientata verso il futuro, ma potevano disporre di una prassi orientata verso il futuro” (p. 288).

Quest’ultima riflessione pare piuttosto contraddittoria (una prassi non corrispondente all’ideologia?); e pare più consona a far quadrare i conti ideologici dell’impostazione di Heller che fondata sull’osservazione della realtà effettuale degli scritti rinascimentali. Forse, però, pecchiamo per eccesso di buon senso.


[Roberto Bertoni]