15/04/13

Mircea Eliade, MITOLOGIE DELLA MORTE



[Kim Ku's Burial Place. (Yochang Park, Seoul 2013). Foto Rb]



1976. In Occultismo, stregoneria e mode culturali. Firenze, Sansoni, 1982, pp. 35-50.

Anche nella sfera di Thánatos, Eliade si rifa ad una delle sue tesi centrali, il mito dell’eterno ritorno. Infatti nota che “nella maggior parte delle culture tradizionali l’avvento della morte si presenta come un disgraziato accidente verificatosi agli inizi […], la morte è la conseguenza di qualcosa che è accaduto in un’epoca primordiale” (p. 36).

Entrando più nello specifico, solo pochi miti spiegano la morte come conseguenza della trasgressione di un comandamento divino: “più comuni sono i mii che attribuiscono la mortalità all’atto crudele e arbitrario di qualche essere demoniaco”, o “come un accidente assurdo e/o come la conseguenza di una scelta sciocca, di una stupidaggine degli antenati mitici” (p. 36).

A parere di Eliade, in tutte le culture la morte è “una seconda nascita, l’inizio di un’esistenza nuova, spirituale”, una seconda nascita non biologica, ma da crearsi ritualmente: “in questo senso la morte è un’iniziazione, l’introduzione di un nuovo modo di essere” (per esempio la resurrezione): da ciò consegue che, sul piano psicologico, “qualsiasi passaggio da un modo di essere a un altro implica necessariamente una morte simbolica. Morire è la condizione preliminare per rinascere in uno stato nuovo, superiore” (p. 41). Se “interpretata come passaggio a un altro modo – a un modo superiore – di esistenza, la morte diventa il modello paradigmatico di ogni mutamento significante della vita umana” (p. 43).

Molte culture ritengono che i morti tornino in vita, in ogni caso che siano presenti tra i vivi dopo la morte (sotto forma di spiriti, fantasmi, ecc.), per cui si determina un’equivalenza metaforica tra morte e vita: “questo processo paradossale rivela una nostalgia e forse la segreta speranza di raggiungere un livello di comprensione in cui vita e morte, corpo e spirito risultino aspetti e stadi dialettici di un’unica, intima realtà” (pp. 45-46).

Si tratta di un “paradosso della traslazione reciproca tra simboli e metafore della vita e simboli e metafore della morte” (p. 46), per cui si esplorano continuamente, nel quotidiano, nei sogni e così via, aspetti della morte rituale o reale (il gioco della campana dei bambini, per esempio, è la ripetizione di un gioco iniziatico in cui si impara a uscire da un labirinto), i proverbi (partire è un po’ morire), l’andar via, le geografie della morte presenti in letteratura. Qualsiasi “immersione nel buio, qualsiasi irruzione di luce rappresenta un incontro con la morte. Lo stesso può dirsi di qualsiasi esperienza di alpinismo, volo, nuoto subacqueo, o per qualsiasi viaggio, scoperta di un paese sconosciuto e perfino per incontri significativi di uno straniero” (p. 48), tutti elementi reperibili nelle configurazioni dell’aldilà rinvenibili nei viaggi mortuari mitici, in universi precedentemente conosciuti in sogno e nella fantasia.

Per quanto assolutizzante, questo saggio mette in rilievo l’enantiodromia della morte e della vita; e il rinnovamento, o non dispersione, derivante dalla tendenza entropica dell’universo e al suo interno degli esseri umani.

[Roberto Bertoni]