05/01/13

Juan Antonio Bayona, THE IMPOSSIBLE; e Denis Rouvre, LOW TIDE - LE JAPON DU CHAOS

 
[Bangkok railway station, 2008. Foto Rb]

Abbiamo visto tre film di impatto di pubblico, usciti durante la stagione natalizia che si chiude con l'Epifania.

Dobbiamo ammettere di non avere subito un forte coinvolgimento emotivo o estetico dai primi due, pur notando elementi interessanti sul piano della tecnica cinematografica, soprattutto degli effetti speciali e dell'uso del colore, in Life of Pi, diretto da Ang Lee; e nelle maglie lasciate libere dagli scopi predominanti di diffusione e di permanenza nell'ambito del genere fantasy in The Hobbit, con la regia di Peter Jackson.

Invece The impossible, con la regia di Antonio Bayona, ci ha commosso oltre che intrigato sul piano dell'etica e dei valori [1].

Da tempo ci siamo persuasi che in quella che inizialmente, qualche decennio fa, sembrava una crisi delle ideologie, o come si diceva allora, dei lyotardiani grands récits, ma che naturalmente non era tale, dato che si trattava semmai di un rinnovamento delle narrazioni ideologiche, non solo quelle dominanti, ma anche quelle di opposizione, che non sono certo, in quanto tali, scomparse, e poi col trascorrere del tempo nella mondializzazione e nell'ibridazione di tutto e di tutti, quello che salva e si rivela unificante e costante, riuscendo ad apportare elementi di contestazione e di azione positiva sul piano personale e sociale, è l'umanità, che in questo film si rivela come solidarietà e aiuto nella catastrofe, suggerendo che forse è nel peggio, nel disastro, che gli esseri umani riescono a dare il meglio in termini di liberazione dalle sovrastrutture e tensione verso l'altro. 

Sarebbe stato possibile fare un film sullo tsunami tailandese del 2004 evidenziando l'egoismo e altri elementi negativi, al che Bayona è sfuggito elegantemente: i colpiti dalla catastrofe si soccorrono, con rare eccezioni; gli abitanti sopravvissuti del luogo li aiutano; il personale degli ospedali è rappresentato in modo calmo ed efficiente; la desolazione è messa in rilievo con chiarezza; le perdite umane sono suggerite da vari dettagli, tra cui il camion di bambini che hanno perso contatto coi genitori; i membri della famiglia protagonista hanno sentimenti autentici di attaccamento reciproco. Si tratta di una storia vera, insistono le didascalie iniziali, anche se è stata mutata la nazionalità. Il film è su tutto questo e raffigura in modo realistico, anche visivamente, lo tsunami. Non credo si possa rimproverare al regista di non avere messo in evidenza le perdite soprattutto tra i tailandesi a causa di questo disastro naturale: questa tragica verità viene indicata, ma il film è su una storia di sopravvivenza e la simpatia umana verso la Tailandia e la sua popolazione traspare con chiarezza da tante scene.

Siamo nel campo della spettacolarità, in ogni caso, con questo film, per quanto in un uso della diffusione di massa che, nel fare appello al sentimento, si propone fini di ricostituzione di una compagine associativa non deumanizzata, al contrario risolidarizzata anche nella ipermodernità e nonostante le disparità economiche.

Certo abbiamo casi meno spettacolari, ma di maggiore impatto riflessivo e di intervento sulla catastrofe con motivazioni al contempo documentaristiche e impegnate. 

Tale ci è parsa, nel rivolgersi tanto alla ragione quanto all’emotività, la mostra di Denis Rouvre alla Pinacotheque de Paris sullo tsunami giapponese del 2011, titolo Low tide - Le Japon du chaos. In una sala oscura a foto in bianco e nero del dopo-catastrofe, con le macerie già accumulate e ordinate in varie parti della zona disastrata, si alternano foto a colori di volti, in prevalenza di anziani, i cui segni dell’età e solchi del viso evidenziano espressioni colte nella quotidianità e senza alcun sensazionalismo, riferendo al contempo della tragedia di aver perso tutti i beni materiali e di una riflessione sulla vita, sull’essere nel mondo. Il fotografo non opera violenza su queste persone, né semplicemente documenta. Qui di seguito la sua poetica:

“J’ai alors voulu retrouver les gens qui vivaient là avant. Je suis allé dans les quartiers de logements temporaires - les kasetsu jūtaku -, construits après la catastrophe pour reloger ces sans-abris. Ce sont des maisons préfabriquées, organisées en petits villages et comme posées en retrait de la côte sur ce qui n’est plus que terrains vagues. Leurs occupants, surtout des personnes âgées, tentent vaille que vaille d’y subsister. La plupart ont tout perdu, famille, amis, maison, animaux, et souvent jusqu’au moindre souvenir propre à forger une histoire personnelle. Leur vie a basculé en quelques secondes.

Conscient de faire irruption dans l’intimité de ces gens, mais animé du désir de les photographier et de recueillir leurs paroles, j’ai frappé aux portes des logements jusqu’à ce que certaines s’ouvrent. Tous n’ont pas souhaité m’accueillir. Les hommes et les femmes qui ont accepté de me suivre au studio photo que j’avais aménagé dans la maison commune sont sûrement ceux dont l’envie de vivre était la plus forte. Pourtant, sur leur visage, j’ai lu l’implacable réalité, traversée d’autant de nuances qu’il y a de vies. Ces visages faisaient écho aux sites dévastés. Comme un puzzle à deux pièces dont chaque élément n’a d’autre choix que de correspondre à l’autre” [2].


NOTE

[1] Juan Antonio Bayona, The impossible. Spagna, 2012. Con Geraldine Chaplin, Marta Etura, Tom Holland, Ploy Jindachote, Samuel Joslin, Ewan McGregor, Oaklee Pendergast, Naomi Watts.

[2] Pinacothèque de Paris, Denis Rouvre, Low Tide - Le Japon du caos.


[Roberto Bertoni]