15/08/12

Zhang Yimou, FLOWERS OF WAR (JĪNLÍNG SHÍSĀN CHĀI)


Cina 2012. Con Christian Bale, Cao Kefan, Shigeo Kobayashi, Ni Ni, Tong Dawei, Zhang Xinyi, Atsuro Watabe

Forse siamo di gusti semplici? Come questo film possa avere riscosso poco successo negli USA non è facile capirlo [1]. La recitazione è veramente impeccabile, non solo da parte degli interpreti principali, Bale e Ni Ni, ma di una schiera di attrici capaci, tra cui alcune giovanissime. La fotografia è impeccabile: sottolinea la desolazione che circonda le atrocità del massacro di Nanjing (Nanchino) da parte dei giapponesi nella guerra di occupazione contro la Cina nel 1937; e riesce a cogliere momenti di pausa e di allentamento della tensione anche quando è costretta a confinarsi negli interni. L’organizzazione del discorso narrativo è teatrale: e questo è uno dei tratti propri di Zhang Yimou, che rendono la struttura raffinata e scorrevole.

Il problema, forse, per un pubblico occidentale, è il melodramma? In effetti l’assunto etico è allegorico ed esemplare. Basato sul romanzo di Geling Yan [2], l’intreccio è quello di una chiesa in cui, in mezzo al massacro, si rifugiano un gruppo di collegiali che frequentano la scuola in inglese della parrocchia e un gruppo di cortigiane. Un addetto statunitense delle pompe funebri va a seppellire il prete americano deceduto e si trova coinvolto nelle azioni di guerra, passandosi per sacerdote al fine di difendere le ragazzine. Quest’uomo, che pareva inizialmente privo di ideali, trova invece nel corso della vicenda la forza interiore e il coraggio di opporsi all’ingiustizia, oltre a un sentimento d’amore per una delle rifugiate adulte. Saranno le prostitute, reiette dalla società, a immolarsi per salvare le scolare e assicurare, almeno a loro, un futuro. Il che suscita emozioni di partecipazione e commozione. I sentimenti forti vengono non di rado ricercati dal cinema asiatico, ma non si tratta spesso di vuota retorica; e qui in aggiunta abbiamo un'evoluzione verso il bene in una situazione di difficoltà estrema in cui, invece di disumanizzarsi, gli inermi si raccolgono gli uni presso gli altri, modificandosi in meglio e acquisendo forza morale nell'agire congiuntamente: da cui il coinvolgimento psicologico dello spettatore.

C’è inoltre uno spiccato interesse per la comunicazione interculturale, come se Oriente e Occidente, che sembravano così lontani nelle prime scene, trovassero una possibilità reale di comunicazione  attraverso codici che vanno oltre le superfici del comportamento e della consuetudine quotidiana per  raggiungere le motivazioni profonde che accomunano gli esseri umani in quanto tali prima delle appartenenze identitarie d'altro tipo.

Indubbiamente è anche un film ideologico, in quanto rappresenta l’occupazione giapponese di Nanjing come un’azione di crudeltà efferata, di barbarie, di violenza. Perché, fu forse qualcosa di diverso? Come morirono le centinaia di migliaia di vittime civili, 200.000 secondo alcune fonti e 300.000 secondo altre? Le torture, le sevizie, il saccheggio. Le donne violentate, tra 20.000 e 80.000 a seconda delle varie fonti. Sarebbe difficile, anche se si insistesse sul fatto che il film sostenga le tesi nazionaliste cinesi, ignorare le atrocità della storia reale [3], perciò la pellicola si rivolge alla memoria collettiva: e anche a questo livello non stupisce, semmai, che abbia riscosso consensi notevoli da parte del pubblico cinese.

Si è detto infine che si tratta di un film commerciale, ma anche su tale piano, francamente, non sappiamo cosa obiettare con precisione, piuttosto ci interessa che un film con propositi umani e di denuncia, diretto da un regista d’eccezione, passi anche sul circuito non d’essai.


NOTE

[2] Nella traduzione italiana di L. Sacchini, I tredici fiori della guerra, Milano, Rizzoli, 2012.
[3] Cfr. tra gli altri l'articolo di F. Amendola


[Roberto Bertoni]